Londra
La sala d’attesa dell'ospedale era una strana combinazione di freddezza istituzionale mescolata al dolore di chi era costretto a stare lì ad aspettare. Le famiglie si accalcavano formando gruppi a sé che attendevano lamentandosi. Tra le piastrelle disinfettate e il tappeto logoro per le migliaia di piedi che lo avevano calpestato, la figura di Lady Millicent Gray svettava in tutto il suo splendore. Le lunghe gambe erano nascoste da un abito di lino che cadeva morbido e leggero, e la folta chioma color cannella riluceva come un falò nella notte. Aveva un viso bellissimo persino di prima mattina, con quel velo di trucco che serviva a nascondere i segni evidenti di una notte di sesso sfrenato appena conclusa, un viso che emanava la luce regale della benevolenza di Dio per quella creatura. Le teste che fino a quell’istante erano rimaste chine per la sofferenza, si levarono a guardarla senza ritegno, dimenticando il dolore almeno per l'istante del passaggio di quella visione. Se più tardi qualcuno avesse interrogato la quarantina di persone presenti, nessuna di loro avrebbe ricordato che mentre entrava dalla porta a vetri e attraversava l'ingresso Millicent era affiancata da una donna araba velata da capo a piedi, secondo l'usanza dell'Islam più conservatore.
Giunta allo sportello del controllo di sicurezza dell'ospedale Millicent parlò tra i denti con la figura che teneva a braccetto. “Spero ti sia chiaro, Trevor, che una volta finita questa storia voglio indossare quel vestito e voglio che tu mi possieda selvaggiamente come il peggiore dei barbari.”
“Scherzi?” ribatté Trevor James-Price con aria sbarazzina. “Non me lo toglierò mai più. Adesso so perché le donne portano la sottana. Cristo, questo venticello che mi sventola sulle palle è una goduria. Quei vecchi marpioni non sanno cosa si perdono.”
“Dio, sei incorreggibile” disse Millicent Gray sorridendo.
La guardia che presidiava la postazione delle infermiere non fece domande a Millicent sul suo legame con Khalid Khuddari, né le chiese perché fosse lì. Fece così fatica a staccarle gli occhi dalle tette che quasi non si accorse che non era da sola. Distratto com’era si lasciò scappare che Khalid occupava una camera singola al quarto piano. Millicent Gray e il travestito Trevor James-Price svoltarono verso gli ascensori, trattenendo il desiderio di tenersi per mano. Lord Harold Gray sarebbe stato di ritorno dalla sua battuta di caccia in Africa due settimane dopo, e ogni secondo che perdevano della loro storia d’amore non sarebbe mai più stato recuperato.
Cinque minuti dopo che Trevor e Millie erano entrati in ascensore un giovane curdo entrò con veemenza nell’atrio. Il rigonfiamento nel taschino di sinistra dell’impermeabile color kaki era un cellulare. Quello nella tasca destra nascondeva una Sig Sauer P220 con il silenziatore.
Tariq lo aveva incontrato nel garage davanti all’immenso ospedale e gli aveva dato il numero della stanza di Khalid, scoperto la sera precedente dopo una lunga e attenta osservazione. Il curdo aveva esattamente venti minuti per raggiungere Khuddari, ucciderlo e tornare al parcheggio nel garage dove Tariq lo aspettava in auto per andarsene insieme. Il giovane si fermò nell’ingresso, sprecando cinque di quei minuti per farsi coraggio. La sicurezza era piuttosto blanda, ma c’erano due guardie corpulente in posizione, che chiacchieravano con i giornalisti che aspettavano una dichiarazione della sconosciuta vittima dell’attentato, quattro piani più in alto.
Il killer decise che era arrivato il momento. Se lo avessero preso, sapeva che si sarebbe ucciso, per riscattarsi dopo il fallimento del giorno prima. Il suo martirio era assicurato. Il silenziatore montato sull’arma automatica era nuovo di zecca, avrebbe funzionato perfettamente. Già a due metri di distanza dalla camera di Khuddari lo sparo non si sarebbe sentito. Mentre si dirigeva verso la fila di ascensori le guardie non lo guardarono neanche.
Khalid Khuddari era sveglio da quasi due ore, strappato al sonno indotto dai farmaci da un dolore insidioso. Le piaghe sulla schiena erano roventi anche attraverso gli strati di garza che le coprivano, e prudevano terribilmente. Ogni volta che sbatteva le palpebre, i delicati muscoli attorno agli occhi tiravano sulle ferite che aveva sul volto, facendo scendere lacrime copiose che gli rigavano le guance. E quando le lacrime raggiungevano la carne viva delle ferite, era letteralmente come metterci sopra il sale.
L’ironia della metafora lo fece ridacchiare dolorosamente.
“Non puoi esserti fatto tanto male se riesci a ridere in quest’orario disumano.”
Khalid gettò lo sguardo verso la porta. Ricordava solo vagamente Millicent Gray, ma riconobbe al volo la voce che veniva da sotto quei veli. Non li aveva sentiti entrare. Trevor James-Price sollevò lo chador facendo svolazzare la sua chioma fluente che ricadde morbida sul viso da ragazzino. Nonostante il sorriso sfrontato si capiva che dietro quegli occhi più azzurri dell’azzurro era sinceramente preoccupato. “Dio, Khalid, hai un aspetto tremendo persino per un lurido arabo.”
“Non sai quello che stai dicendo.”
“Non ti farò domande scontate tipo come stai. E siccome ho parlato con quel genio del tuo dottore ieri sera e ho anche letto i giornali, non ti chiederò neanche cos’è successo. Quello che vorrei sapere è perché hai voluto che venissi qui e perché in quest’orario infame. A proposito, lo sai che la sicurezza qui fa ridere i polli?”
“Non mi meraviglia. Nessuno sa chi sono, e vorrei lasciare le cose come stanno fino a che non me ne sarò andato.” Lentamente, come un vecchio che sta per morire, Khalid si sforzò di mettersi seduto, e ogni movimento era accompagnato da una smorfia di dolore. Quando riuscì a mettersi in piedi appoggiandosi al bordo del letto, era senza fiato e sudava.
“Piano, vecchio mio.” Trevor attraversò la stanza e posò una mano sulla spalla di Khalid, che si irrigidì al solo tocco dell’amico.
“Devo andarmene da qui, Trev” disse ansimando, pallido come un cadavere e con le labbra viola. “Devo tornare negli Emirati.”
“Non credo proprio che dovresti muoverti” disse Millicent avvicinandosi a Trevor. Anche se non conosceva Khalid, era difficile staccargli gli occhi di dosso e non provare per lui una simpatia incondizionata.
“Me ne andrò, Lady Gray. Trevor potrà spiegarle perché, e in questo momento ho bisogno del suo aiuto, non della sua pietà” disse Khalid con una convinzione che gelò la stanza.
Trevor si stava già sfilando l’abito nero da sopra la testa. A differenza di quanto aveva fatto credere a Millicent poco prima, sotto l’abito indossava i pantaloni e la camicia della sera prima.
Sul colletto della sua camicia Turnbull e Asser c’era una vistosa macchia di rossetto. “Cosa vorresti che facesse lei per te?”
“Avrebbe dovuto indossare lei il chador, come ti avevo detto ieri sera.” Khalid era seccato che non lo avessero ascoltato.
“Non importa, ragazzo” disse Trevor scherzando, cercando di tirare su il morale dell’amico. “Ho sempre desiderato travestirmi.”
Khalid non aggiunse una parola mentre Trevor gli porgeva un sacchetto di vestiti sottratti al guardaroba di Lady Gray. Il marito di Millicent Gray era un omaccione con un giro vita che era il doppio di quello di Khalid, e anche di più. Dopo aver aiutato Khalid a vestirsi, Trevor gli infilò il vestito nero da sopra la testa, tirandolo giù fino a lasciare scoperte solo le scarpe. “Spero che tu sappia quello che stai facendo, Khalid. Non sei nelle condizioni di lasciare questa stanza, figurati se puoi prendere un aereo per tornare negli Emirati.”
“Non ho alternative.” Khalid fu assalito da un’altra ondata di dolore, e ogni fitta era un po’ più sopportabile della precedente. Era difficile crederci, ma si stava abituando alle ferite.
Vedendolo barcollare Millicent fece un balzo in avanti e gli afferrò il braccio. “Trevor, non dovresti aiutarlo a fare questo, è mezzo morto.”
“Millie, ci sono in ballo molte altre vite oltre alla sua” disse James-Price con un tono pacato ma convinto. “Mi dispiace averti tirata dentro questa storia, non ne ho alcun diritto, ma per favore aiutaci. Gli uomini che gli hanno sparato ieri al British Museum quasi certamente ci riproveranno. Se rimarrà in questa stanza sarà un bersaglio pronto per essere colpito.”
“Perché non avvisi la vostra ambasciata?” chiese lei.
“Perché in questo momento non so di chi mi posso fidare, e andarmene è la cosa migliore che posso fare” rispose Khalid.
“Ma non ce la farà mai a prendere un aereo senza prenotare il biglietto.” Millie continuava a parlare con Trevor come se Khalid non ci fosse.
“Passaporto diplomatico. Il volo lo trova.” Trevor mostrò il plico che aveva prelevato dalla camera d’albergo di Khalid. “È lì che sono andato stamattina presto. Siccome l’ospedale ieri sera non sapeva chi fosse, ho immaginato che avesse lasciato i documenti in albergo.”
Khalid fece un cenno di gratitudine all’amico e prese il passaporto.
“È l’unico vantaggio che sfrutto, oltre alla targa delle macchine dell’ambasciata. Lady Gray, mi dispiace, ma non c’è altra via d’uscita. E come ha detto Trev, ci sono in gioco troppe vite.”
“E va bene. Ti darò una mano. Ma Trevor, mi devi assicurare che a Heathrow ci saranno delle guardie a proteggerci, e anche un medico.” Anche se aveva l’impressione che i due uomini stessero esagerando nella drammaticità, li assecondò, se non altro perché era la moglie-trofeo di un Membro del Parlamento straricco, annoiata a morte.
“È meglio se lei resta qui, Trevor” disse Khalid. “Qualcuno potrebbe seguirci.”
“Cazzate” disse Trevor abbassando il velo sulla testa di Khalid, “nessuno farà caso a te.”
Tirò fuori dalla tasca le chiavi della vecchia Bentley che era la sua auto da quando aveva divorziato e le depositò nel palmo aperto di Millicent, carezzando la pelle alla base delle dita. Lei sorrise per l’intimità di quel gesto e lui le strizzò l’occhio. “Riesci a portarlo via dall’ospedale? Ti posso accompagnare fino alla macchina.”
“No!” disse Khalid. La voce era attutita dal velo, ma appesantita dalla paura. “Sono entrate due persone e due persone usciranno. Non dobbiamo attirare l’attenzione. Ce la posso fare.”
Sulla soglia, Khalid si fermò e si voltò per ringraziare l’amico. La pallida luce del sole che faceva capolino dalla finestra illuminò i capelli dorati di James-Price. “Ci vediamo, maledetto inglese.”
“Abbi cura di te, sporco arabo.”
Calandosi nel ruolo del familiare sofferente che si allontana da un parente moribondo e cercando di tenersi il più dritto possibile, Khalid permise a Millicent di guidarlo fuori dalla stanza. Nessuno di loro prestò la minima attenzione all’uomo con l’impermeabile che attraversava l’atrio andando verso di loro. Millicent non aveva nessuna percezione del pericolo e Khalid stava lottando per non svenire dal dolore. Se si fossero voltati, avrebbero visto che mentre si avvicinava alla porta della stanza di Khalid quell’uomo infilava la mano in tasca. Avrebbero potuto salvare Trevor.
Quando la pesante porta si spalancò verso l’interno spingendo sul braccio della molla automatica, Trevor stava entrando in bagno. Quasi si aspettava che Millicent fosse tornata per salutarlo con un bacio.
Si voltò sorridendo. Una raffica spietata di proiettili da nove millimetri devastò la stanza sfasciando la porta del bagno, e una pallottola lo colpì proprio in mezzo agli occhi. Dalla ferita non uscì neanche una goccia di sangue, perché il suo cuore aveva già smesso di battere, ci fu solo qualche schizzo mentre crollava sul pavimento di linoleum.
L’assassino diede un’occhiata alle sue spalle nel corridoio deserto. Vedendo che nessuno aveva sentito gli spari entrò nella stanza chiudendo silenziosamente la porta dietro di sé. Prima di esaminare il corpo, abbassò la sicura della pistola e la rimise in tasca. Solo allora si accorse di aver commesso un errore fatale. L’uomo che giaceva a terra non era Khalid Al-Khuddari.
Dalla tasca, sentì il cellulare che squillava.
Lo prese e spinse il bottone per rispondere ma non disse nulla. All’improvviso era rimasto senza voce a contemplare la gravità del suo fallimento.
“E allora?” Era Hasaan bin-Rufti. Il curdo aveva sperato che fosse Tariq, che sembrava essere un po’ più morbido del suo ingombrante superiore.
Senza pensarci su, l’assassino disse la verità: “È scappato, efféndi.”
“Che cosa?” ruggì Rufti nel telefono.
“Quando sono arrivato aveva già lasciato l’ospedale. Non so né quando né dove se ne sia andato.” La menzogna era l’unica strategia che gli veniva in mente per salvarsi la vita. Per quel fallimento Rufti lo avrebbe ucciso.
“Trovalo, o per il sangue del Profeta, ti scortico vivo e con la pelle mi ci faccio le foderine per l’auto.” Hasaan Rufti chiuse violentemente il telefono e si voltò verso lo steward che stava in piedi dietro di lui, con una livrea così immacolata che emanava una luce propria. “Di’ al pilota che se non decolla entro i prossimi sessanta secondi…” Rufti fece una pausa, e non trovando una minaccia interessante, ripeté quella di poco prima. “Digli che lo scortico vivo e che con la pelle mi ci faccio le foderine per l’auto.”
“Sì, Ministro” disse lo steward, inchinandosi servile. Sgattaiolò dalla cabina del jet privato Hawker Siley abbassando la testa per entrare nell’abitacolo di pilotaggio.
Sebbene le finiture del velivolo fossero le più raffinate che la Hawker poteva offrire, legni del Brasile e cuoio turco, non c’erano dubbi che si trattava di un aereo piccolo, con lo spazio sacrificato in altezza per fare economia. La maggior parte delle persone si emozionerebbe all’idea di avere a disposizione un aereo come quello, ma Rufti era infastidito. L’aereo personale di Khuddari era un Boeing, ma quello scemo non lo usava quasi mai, e pensare che c’era così tanto spazio che se gliene fosse venuta voglia avrebbe potuto metterci dentro una palestra intera.
Quell’aereo sarebbe dovuto appartenere a qualcuno che era in grado di apprezzarlo, pensò Rufti. Qualcuno come lui.
Erano ancora sulla pista di Gatwick, con un ritardo di due ore perché un aereo della El Al aveva comunicato un’emergenza mentre era in avvicinamento a Heathrow e aveva deciso di atterrare a Gatwick, causando cancellazioni o ritardi per decine di voli, tra cui il volo HS 125 600 di Rufti. Avrebbe dovuto essere ad Abu Dhabi per le dieci, ma da come si stavano mettendo le cose, avrebbe avuto almeno quattro ore di ritardo.
“Ebrei di merda” borbottò infastidito, come se quell’imprecazione potesse cancellare tutti i suoi guai.
Kerikov era pronto a far detonare le batterie di azoto liquido fissate sull’oleodotto in Alaska, gli iraniani e gli iracheni erano pronti a muovere le loro truppe non appena fosse giunto l’ordine, e lui era inchiodato a terra ad aspettare che un gruppetto di ricconi ebrei uscissero dal loro aereo per andare a comprarsi un altro pezzo di mondo. Aveva duecento dei suoi uomini che lo aspettavano nel Golfo, per essere guidati da lui alla gloriosa conquista degli Emirati Arabi Uniti, strappandoli dalle grinfie dei fantocci che gli inglesi avevano messo al potere negli anni settanta.
Il principe ereditario, anche se era sul chi va là, non sospettava una rivolta. Rufti sapeva che dalla tempestività della sua azione dipendeva il successo del suo tentativo di impossessarsi del Golfo Persico. Tardare, mentre l’Arabia Saudita, il Kuwait e gli Emirati si organizzavano per far fronte ai cambiamenti imposti dalla sospensione delle importazioni di petrolio da parte degli Stati Uniti avrebbe danneggiato la sua causa. Doveva colpire ora, mentre i governi erano incerti su cosa il futuro aveva in serbo.
Rufti non ricordava dove aveva sentito quel concetto: un uomo affamato è più facile da convincere e un uomo confuso è più facile da sconfiggere.
In quel momento tutto il Golfo era in preda alla confusione, i governi erano in subbuglio, pronti per il suo colpo di mano. Non avrebbe potuto scegliere un momento migliore. Nell’ultimo anno, da quando aveva accettato di partecipare al progetto di Kerikov di azzoppare le risorse petrolifere interne degli Stati Uniti, Rufti aveva lavorato senza sosta, nell’ombra, per trasformare in realtà il suo ambizioso progetto. Senza l’Iran e l’Iraq non avrebbe mai potuto sperare di usurpare il trono degli Emirati Arabi Uniti e tenerselo. Ma se falliva nell’evento scatenante concordato, e cioè la morte di Khuddari, poteva scordarsi di governare il Medio Oriente. Anzi, poteva scordarsi di vedere ancora sorgere il sole. Gli iracheni, in particolare, gli avevano detto chiaramente che, se falliva, Rufti sarebbe morto.
I carri armati iracheni erano pronti a entrare in Kuwait non appena Rufti fosse riuscito a neutralizzare la minaccia americana. Mettendo fuori uso l’oleodotto avrebbe generato una crisi interna agli Stati Uniti che avrebbe reso loro impossibile contrastare l’invasione. Il Kuwait sarebbe crollato nel giro di pochi giorni, l’Arabia Saudita dopo una settimana o poco più. Qualche missile Scud carico di antrace puntato su Tel Aviv e su Gerusalemme e la guerra si sarebbe conclusa così. L’America non avrebbe avuto basi da cui lanciare la sua controffensiva e non sarebbe mai ricorsa alle armi nucleari per far sloggiare gli iracheni e i loro nuovi compagni iraniani.
Senza il petrolio dell’Alaska e con una riserva strategica sufficiente a dare un’autonomia di un mese o al massimo due, gli Stati Uniti sarebbero stati costretti a trattare con il nuovo triumvirato del Medio Oriente: Iran, Iraq ed Emirati Arabi Uniti. Rufti prevedeva che i prezzi del petrolio sarebbero decuplicati. E quello era solo l’inizio. Immaginava che lui sarebbe diventato uno degli uomini più ricchi del mondo. E con una riserva di milioni di barili di petrolio sepolto sotto le sabbie infuocate degli Emirati, avrebbe potuto riuscirci.
Se solo avesse potuto far decollare quel cazzo di aereo e dirigerlo verso Abu Dhabi.
Il telefono incassato nel bracciolo del sedile belò come un agnellino, un trillo discreto che, agitato com’era, quasi gli sfuggì. Al quarto squillo, rispose.
“Cosa c’è?”
“Sono Tariq, signore.” Dopo Abu Alam, Tariq era il più fidato assistente di Rufti. Orfano della guerra civile libanese e poi allevato nel campi profughi, Tariq si era nutrito di odio e di morte ed era tenacemente leale e privo di qualsiasi scrupolo morale. Quando si trattava di uccidere qualcuno, Abu Alam lo faceva con la smania di un tossicodipendente, mentre Tariq eseguiva gli ordini con la freddezza del professionista. Rufti lo aveva mandato all’ospedale come riserva per coprire quell’idiota del curdo.
“Cosa succede?”
“Sono in autostrada, diretto all’aeroporto di Heathrow. Sto seguendo una Bentley blu.” La voce era distorta dalla cattiva ricezione del cellulare. “Subito dopo che il curdo è salito nella stanza di Khuddari, due persone hanno lasciato l’ospedale passando dal parcheggio nel garage. Erano due donne, una occidentale e una araba, che indossava un chador e aveva il volto velato. Le avevo viste entrare dal garage poco prima. Sembrava che l’auto appartenesse alla donna araba, che era al volante, ma quando se ne sono andate alla guida ci si è messa la donna occidentale e si capiva che non conosceva bene i comandi dell’auto.
“Arriva al punto, Tariq” sbuffò Rufti.
“Credo che il chador fosse un travestimento e che nell’auto che sto seguendo ci sia Khuddari, che sta tentando di lasciare il paese.”
“Ne sei certo?” Il barlume di speranza che Tariq gli stava offrendo gli ricordò che era già quasi mezz’ora che non mangiava. Senza chiudere la conversazione chiamò lo steward. “Ma è veramente Khuddari?”
“L’istinto mi dice di sì.”
“A che distanza sei da Heathrow?”
A dieci minuti dall’ingresso principale. Immagino che siano diretti alle partenze internazionali, al terminal 4.
“Sì, sì, ma fammi pensare.” Non c’era tempo per attaccare Khalid prima che entrasse nel perimetro protetto dell’aeroporto. Rufti doveva fare in modo di ritardare la partenza di Khuddari da Londra ancora per qualche ora, il tempo di rientrare negli Emirati e mettere in atto il suo colpo. “Hai con te dell’esplosivo?”
“Solo un paio di granate” disse Tariq con la voce metallica per le interferenze dei radar dell’aeroporto.
“Perfetto!” esultò Rufti. Lo steward gli mise davanti un salmone intero, di un rosa talmente delicato che la fessura nella carne sull’addome del pesce ricordava il sesso di una donna. “Quando avremo concluso questa telefonata, voglio che chiami quell’imbecille del curdo e gli dai questi ordini. Ecco quello che…”
Anche se la Bentley aveva già vissuto i suoi momenti d’oro una decina di anni prima, era comunque un’auto che meritava rispetto mentre scivolava sulla M4 a est di Heathrow. Millicent aveva preso confidenza con i comandi ed era in grado di imporsi sugli altri automobilisti per farsi largo e avanzare di qualche metro in più sull’autostrada bloccata dal traffico. Un camion con rimorchio le suonò il clacson per protestare contro la sua guida disinvolta e lei rispose con un ben poco aristocratico insulto esibendo il dito medio. Si scusò con Khalid per quel gestaccio, spiegandogli che quando era alla guida della sua Rolls-Royce Silver Cloud, nessuno osava mai protestare.
Khalid era rimasto in silenzio per quasi tutto il tragitto, lottando strenuamente contro il dolore che lo assaliva con fitte lancinanti alla schiena e alle gambe. C’erano momenti in cui riusciva a tenerlo a bada, cacciandolo indietro con la forza della volontà, ma poi riappariva all’improvviso. Avrebbe dovuto pensare a un sacco di cose e programmare le sue prossime azioni, ma aveva la mente annebbiata e non riusciva a concentrarsi. Ogni tanto percepiva gli occhi di Millicent su di sé, ma non riusciva a voltarsi per ricambiare lo sguardo.
Si infilarono nelle curve della strada di accesso, lungo la quale si alternavano macchie di prato e di arbusti, grandi spiazzi asfaltati e capannoni in metallo ondulato. Millicent stava seguendo le indicazioni per il terminal delle partenze internazionali, sgusciando in mezzo agli autobus che invadevano la stretta corsia e da dietro eruttavano nuvole di fumo in quel loro andare e venire senza sosta da una parte all’altra dell’enorme aeroporto.
“Qual è la compagnia aerea?” chiese Millicent mentre si avvicinavano al terminal 4.
“Non ha importanza” rispose Khalid indifferente, sfilandosi il chador. “Una volta entrato in aeroporto chiederò una prenotazione sul primo volo disponibile per Abu Dhabi.”
“È sicuro?” chiese mentre accostava la Bentley sulla curva davanti a uno degli ingressi della British Airways e appiccicandosi al sedere di una corriera che stava scaricando decine di gente sommariamente vestita, reduci dal loro vorticoso giro turistico tutto-compreso in Europa.
“Posso anche accompagnarla in un altro ospedale o all’infermeria dell’aeroporto, di sicuro ci sarà un medico di guardia.”
Khalid tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un fazzoletto nel quale erano avvolte delle capsule. “Sì, sono sicuro” disse ingoiandole all’istante, “ho tenuto da parte queste, dovrebbero tenermi su.”
“Aspetti un momento. Non dovrebbero esserci delle guardie della sicurezza ad aspettarci?” chiese lei.
“Quello era un bluff di Trevor per convincerla a collaborare. Non avrebbe mai avuto il tempo per organizzare una cosa del genere. Ora devo andare.” Khalid aprì la portiera. “Grazie, Lady Gray. Credo che molto presto potrà apprezzare i frutti di quello che ha fatto stamattina.”
Uscì dall’auto verificando cautamente le sue forze prima di muovere i primi passi verso il terminal, ignorando le orde di persone che si agitavano tutto attorno. Appena entrò fu inghiottito dalla folla e divenne invisibile, un’altra faccia tra le migliaia di passeggeri e i loro accompagnatori che si accalcavano e formavano code ovunque. Gli tremavano le gambe e il solo contatto dei vestiti gli faceva ribollire le ferite nonostante le spesse fasciature. Se le pastiglie non si sbrigavano a fare effetto, sarebbe collassato.
Gli ci vollero pochi minuti per garantirsi un posto sul prossimo volo per Abu Dhabi passando da Riyadh con un volo della British Airways. Era bastato esibire il suo passaporto nella sala VIP e gli avevano fatto il biglietto. Era la prima volta che sfruttava quel privilegio da diplomatico, e giurò che non ne avrebbe fatto un’abitudine, anche se era confortante sapere di poterlo fare.
Trevor aveva previdentemente infilato una manciata di banconote da venti sterline nella tasca dei pantaloni, e ne usò subito una per comprarsi un robusto ombrello e un paio di occhiali da sole. Usò l’ombrello come bastone in modo da alleggerire il peso sulla gamba più malandata. I grandi occhiali non riuscivano a nascondere tutte le ferite che aveva sul volto, si limitavano a coprirne un paio, ma aggiungendo i ciuffi di capelli tenuti in avanti poteva sembrare uno che aveva appena avuto un incidente d’auto.
In cima alla scala mobile, proprio prima delle macchine per il controllo ai raggi X, una giovane donna in uniforme blu gli si avvicinò.
“Ministro Khuddari, mi chiamo Vivica Smith” la hostess della British Airways sorrise amabilmente. Era giovane, forse non aveva vent’anni, con i capelli biondi a caschetto e uno sguardo dolce. Verificò il suo passaporto con le informazioni che aveva ricevuto dalla biglietteria della compagnia aerea. Vedendo che zoppicava, Vivica Smith chiamò uno dei veicoli elettrici dell’aeroporto per accompagnarlo al Boeing 767 che stava aspettando il suo ultimo passeggero.
“La ringrazio per la sua premura, siete molto accoglienti” disse Khalid. Gli antidolorifici stavano finalmente facendo effetto e smussando i lembi delle sue ferite più profonde. Mentre si spostavano lungo corridoi ricoperti di moquette, chiese a Vivica di prestargli il cellulare per chiamare il colonnello Wayne Bigelow ad Abu Dhabi. Quel vecchio ratto del deserto non era nel suo immondo appartamento da scapolo, ma Khalid gli lasciò un messaggio sulla segreteria avvisandolo che sarebbe arrivato dopo poche ore, gli diede i dettagli del volo e gli chiese di andare a prenderlo all’aeroporto.
Nugoli di passeggeri stracarichi di valige si spostarono per far passare l’automobilina che scivolò davanti ai negozi duty-free, a un numero imprecisato di edicole e alle boutique eleganti che erano l’orgoglio del terminal 4. In pochi minuti arrivarono all’uscita del volo di Khalid. Vivica Smith scese dall’auto con un balzo e prese una sedia a rotelle che era stata lasciata all’ingresso del gate. Senza alcuna difficoltà lo accompagnarono sull’aereo e lo sistemarono sul sedile di prima classe a lui riservato. Riuscire a trovare un posto simile all’ultimo minuto e far persino aspettare l’aereo fino a quando lui non era a bordo costava almeno dieci volte il prezzo di un normale biglietto. I privilegi non erano certo a buon mercato.
Ormai incapace di rimanere sveglio, dopo aver resistito al sonno Khalid crollò nella pace di un profondo sonno ristoratore mentre il jet si allontanava goffamente dalla rampa.
Il detonatore a scoppio ritardato della granata di fabbricazione ceca RGD-5 era stato modificato per portarlo dai quattro secondi originali a sessanta, trasformando l’ordigno in un’ingegnosa arma terroristica adatta ai luoghi affollati in cui dei meccanismi più sofisticati verrebbero facilmente individuati se lasciati in giro per troppo tempo. Tariq aspettò che la seconda lancetta del suo orologio facesse l’ultimo giro previsto dal programma. Bevve l’ultimo sorso della sua bibita in lattina, estrasse la granata dalla tasca del cappotto e gettò entrambi gli oggetti nel bidone della spazzatura accanto al quale era rimasto in attesa per quindici minuti. Camminando lentamente, si avviò verso l’uscita e si diresse alla sua auto, parcheggiata in un parcheggio per soste brevi. Se anche qualcuno lo avesse riconosciuto come l’uomo che aveva piazzato l’ordigno, quella era la sua prima azione fuori dal Medio Oriente ed era assai improbabile che la sua descrizione portasse le autorità a identificarlo.
I centoventi grammi di TNT contenuti nella cavità arrotondata esplosero 59,8 secondi dopo che la granata era stata attivata, incastonando il coperchio del bidone nel soffitto del terminal. La forza d’urto si diresse anche verso l’esterno, grazie al rivestimento dirompente che frantumava l’involucro generando centinaia di minuscole schegge affilate. Una ragazza alla pari norvegese di diciannove anni che stava tornando a casa fu investita in pieno dall’esplosione, e il suo corpo fatto a pezzi si sparpagliò fino a un centinaio di metri dal punto dello scoppio. Ci furono altri otto feriti. Uno di loro, un prete nigeriano, morì poco dopo nell’infermeria dell’aeroporto.
Ancora prima che il panico si diffondesse nell’enorme edificio, il telefono nell’ufficio del direttore dell’aeroporto squillò. Geoff Wilberforce era già di pessimo umore per tutti i ritardi e i cambiamenti di rotta causati dal volo El Al che era dovuto atterrare a Gatwick per un’emergenza, e non aveva nessuna voglia di rispondere al telefono.
“Cosa c’è?” ringhiò, aspettandosi il solito controllore di volo smidollato che lo chiamava da Gatwick.
“Nel preciso istante in cui il suo telefono squillava, nell’atrio principale del terminal 4 è stato fatto esplodere un ordigno. Una piccola esplosione in confronto a quello che abbiamo posizionato in giro per l’aeroporto e su alcuni dei voli che stanno aspettando l’autorizzazione al decollo. Se anche un solo aeroplano cerca di lasciare Heathrow quando saranno passati due minuti dalla fine di questa telefonata, farò scoppiare le altre bombe. Le tue mani si sporcheranno con il sangue degli innocenti. Permetterò che gli aerei atterrino nella prossima ora, ma se scaduto quel tempo anche un solo aereo cercherà di atterrare qui, farò esplodere il resto dell’esplosivo. L’aeroporto di Heathrow è bloccato per ordine del movimento Kurdistan Unito.”
Il terrorista riattaccò lasciando Wilberforce ad ascoltare il monotono ronzio del telefono, che sembrava quello di un monitor cardiaco quando il cuore si ferma. Stava per alzarsi quando la sua segretaria si precipitò nel suo ufficio sull’orlo di una crisi di pianto.
“Geoff, c’è stata un’esplosione.”
I potenti motori del Boeing 767 della British Airways erano ancora in folle e borbottavano sommessamente mentre l’enorme velivolo si spostava lungo le piste di accesso al decollo in coda a un jumbo diretto a New York. Erano in quarta posizione nella lista per il decollo, ma all’improvviso i motori piombarono in un silenzio inquietante. Le luci della cabina si abbassarono e l’aria condizionata passò al regime di basso consumo.
“Signore e signori, è il capitano che vi parla. Purtroppo si è verificato un guasto meccanico qui a Heathrow. Il radar principale è fuori uso e questo ha mandato in tilt anche la rete informatica. È possibile che saremo costretti a rimanere qui per un po’, fino a quando il problema non sarà risolto. A nome della British Airways e di tutto l’equipaggio ci scusiamo per questo leggero ritardo. Vi terremo costantemente aggiornati. Nel frattempo, il personale di cabina è a vostra disposizione per servirvi alcune bevande. Grazie.”
Khalid stava dormendo come un sasso e non aveva sentito l’annuncio.